«Ho passato anni della mia
infanzia a fantasticare su di lui. Costruivo castelli sulle poche cose che
sapevo: capelli biondi, occhi azzurri, laureato. Giorni frenetici e notti
insonni passate a immaginare il suo carattere, le sue passioni. “Forse era un
musicista, come me”, mi dicevo, “forse era un’artista squattrinato, per questo
l’ha fatto, aveva bisogno di soldi”. Poi ho scoperto che il donatore
numero 81 era un professionista affermato, un medico che si definisce credente.
Il mio padre biologico».
24 anni, newyorkese, Alana
Stewart è quello che in gergo tecnico si chiama a donor-conceived adult,
ossia un adulto concepito da donatore. La sua è una delle vicende raccontate
nel documentario Anonymous
father’s day (giornata del padre
anonimo) che per la prima volta dà voce a un popolo che ogni anno nei soli
Stati Uniti conta dai 30mila ai 60mila nuovi nati. Tanti sono infatti i bimbi
che vengono al mondo grazie alla donazione di sperma da parte di padri
rigidamente protetti dal più totale anonimato.
Prodotto da Jennifer Lahl,
già direttrice di Eggsploitation (sul tema della donazione di ovuli), e presidente del Center
for Bioethics and Culture Network di
San Francisco, il documentario, disponibile on
line in lingua inglese, offre una
panoramica inquietante su un’industria globale senza traccia che sta
timidamente venendo allo scoperto grazie ad internet. Mai come in questi anni
infatti, proliferano blog, siti e social network attraverso i quali i figli di
padre donatore cercano tracce delle proprie origini, si incontrano tra
“fratelli”(un donatore può arrivare ad aver generato anche 150
volte), tentano di dare un volto e un nome
ad un padre del quale conoscono soltanto il codice identificativo, l’area in
cui il seme è stato “distribuito”, il lasso di tempo in cui l’attività di
donazione è proseguita.
I 60 minuti del film
ospitano il contributo di Elizabeth Marquardt, direttore del Center
for Marriage and Families at the Institute for American Values, curatrice del rapporto FamilyScholars.org e coautrice, insieme a Norval D. Guenn e Karen Clark,
dello studio My
Daddy’s Name is Donor, ovvero “Mio
papà si chiama donatore”, condotto su un campione di 485 adulti di età compresa
tra 18 e 45 anni con lo scopo di effettuare un primo monitoraggio su una
generazione di persone concepite in risposta ad un irrefrenabile desiderio di
maternità e poi abbandonate al loro destino.
«Il 67% degli intervistati
ha affermato di sentirsi perso dal momento in cui ha appreso di essere figlio
di donatore – afferma la Marquardt – e di voler conoscere il proprio padre
biologico. Il 70% ha ammesso di trascorrere molto tempo fantasticando sulla
vita e le abitudini del donatore e di non riuscire a darsi pace. Tra i dati
registriamo poi una stretta correlazione tra il ricorso al padre donatore e il
fallimento delle unioni matrimoniali».
«Quello a cui siamo abituati
a pensare quando si parla di donazione di sperma, o anche di ovuli, è come
aiutare le persone ad avere un bambino, – spiega Jennifer Lahl, che da anni
studia gli effetti delle tecniche di procreazione assistita – mai riflettiamo
sulle prospettive di determinate scelte, dei diritti, dei desideri delle
aspettative del nascituro. Cosa succede ad un ragazzo quando scopre che il papà
che l’ha cresciuto non è il suo padre biologico? Cosa succede ad una donna
quando l’anziana madre scoperchia il baule del passato e scombina le carte che
sono sempre state in tavola? Come si rapporta ad un bambino un “padre
acquisito”? Quale è “l’impatto etico” dei donatori di sperma sui loro figli? ».
Per rispondere a domande
come queste il documentario ha scelto di raccontare la storia di Alana Stewart,
che gestisce il sito anonymousus.org attraverso il quale raccoglie e riporta le storie di chi,
come lei, ad un certo punto, ha scoperto di non avere più radici.
«Avevo 5 anni, era un giorno
come un altro, mi stavo preparando per andare a scuola, quando mia mamma mi ha
detto che ero figlia di un donatore. Così, semplicemente. Ero confusa, ma
sicuramente ho subito dato un nome a quello strano senso di estraneità che da
sempre percepivo nei confronti di papà. Ho una sorella di 2 anni più grande e
mia madre quel giorno mi ha spiegato che lei invece era stata adottata. Qualche
anno dopo i miei genitori si sono separati e mia madre ha concepito
naturalmente il suo terzo figlio con un nuovo compagno. Ho visto mia madre crescere
tre “tipologie biologiche di figli” e le differenze, certamente involontarie,
nel suo rapporto con noi. Ho visto l’unico padre che conoscevo chiedere, dopo
il divorzio, la paternità della mia sorella maggiore e non la mia. Sentiva più
sua la figlia adottata, rispetto a me».
Nonostante gli occhi, a
tratti velati di lacrime, Alana racconta la sua storia con distacco, come se
quello che dice le appartenesse fino ad un certo punto, come se per mettersi al
riparo da uno smarrimento ancora maggiore si fosse rifugiata nelle sue poche
certezze. Il senso di estraneità e smarrimento accomuna la sua vicenda a
quella di tanti altri, tra i quali Barry
Stevens che nel documentario racconta di
aver saputo soltanto alla morte del padre, la verità “biologica” sul suo
concepimento. «Suona strano ma è come se io avessi sempre sentito una forma di
distacco nei suoi confronti e mia sorella provava la stessa identica cosa. Come
se in famiglia ci fosse sempre stato un segreto e noi due ne fossimo tenuti
all’oscuro. Era alienante, mi sentivo perennemente incerto».
La crisi di identità e il
senso di confusione percepiti dai figli di donatori rientra in quello che viene
chiamato genealogical bewilderment, ovvero “smarrimento geneologico”.
Spiega la regista: «Il bambino sente insieme curiosità e confusione rispetto a
chi appartiene, alla sua identità, alle sue radici, al suo posto nella
famiglia. Lo si vede nei bambini adottati, che chiedono di sapere dei loro
genitori biologici, e ancor più succede nei bimbi nati da donatore, per i quali
la ricerca del padre è resa ancor più difficile dalla protezione della privacy
di chi dona, da parte delle cliniche».
«Mi sembra assurdo che gli
ospedali trattengano così tante informazioni sui donatori e non si preoccupino
dei diritti di chi nasce – osserva Barry Stevens. – Ci vogliono convincere che
un padre donatore non sia altro che una persona disposta ad aiutare chi non
riesce ad avere figli, una prassi ordinaria. Non considerano che abbiamo tutti
una grande domanda di senso nel cuore che ci porta a domandare: chi sono? Da
dove vengo? Ci ripetono è una cosa normale, che non c’è nulla di male. Eppure
qualcosa non torna…».
Di Raffaella Frullone