«Se sei una donna alta,
attraente, di età compresa tra 20 e 29 anni, contattaci. Potrai guadagnare
molto, facendo del bene al prossimo».
Coi tempi che corrono,
qualcuno potrebbe pensare ad uno scherzo, o all’ennesima trovata sarcastica che
ha per oggetto giovani di belle speranze disposte a tutto per un assaggio di
notorietà. Invece – ahinoi – la questione è molto più seria, molto più scomoda
e forse per questo sapientemente lontana da prime pagine e riflettori.
L’annuncio è infatti il
tipico spot delle cosiddette “cliniche per la fertilità” che, per garantire
alle 50-60enni il sacrosanto diritto di avere un figlio biologico, sono alla
spasmodica e costante ricerca di ovuli freschi e pronti per essere reimpiantati
e riutilizzati in un mercato che, da qualunque parte lo si analizzi, fa rabbrividire.
La questione è di stretta
attualità nel nostro paese, dove proprio oggi la Consulta è chiamata a
pronunciarsi sulla questione dell’incostituzionalità della legge sulla
procreazione assistita nella parte in cui vieta la fecondazione eterologa. A
sollevarla sono stati i Tribunali civili di Firenze e Catania che hanno accolto
il ricorso di due coppie sterili che chiedevano la possibilità di avere un
figlio ricorrendo a quello che definiscono “materiale genetico di un donatore
anonimo”.
Oggi il termine “fecondazione
eterologa” per qualcuno è diventato un mero baluardo di una libertà da
difendere a tutti i costi, mentre per la maggior parte delle persone la
questione rimane un nebuloso concetto relegato al complesso campo medico, e
quindi marginale. Eppure la questione è tutt’altro che marginale e attraversa i
confini della medicina riversandosi nel campo dell’etica per poi debordare
nella sfera economica, dato che siamo di fronte ad un’industria che, soltanto
negli Stati Uniti, arriva a fruttare 6, 5 miliardi di dollari l’anno.
Lo scenario è ben illustrato
dal documentario Eggsploitation, uscito lo scorso anno negli Stati Uniti
e presto disponibile con i sottotitoli in italiano. Il titolo gioca con i
termini “eggs” (ovuli) e “exploitation” (sfruttamento) e attraverso una serie
di interviste ricostruisce la trama che si snoda dietro la fecondazione
eterologa, raccontando cosa succede alla radice: non quando la coppia sterile
se ne va finalmente a casa con il pupo, ma cosa si fa e quanto costa arrivare
al “prodotto finito”. Il video è frutto dell’idea di Jennifer Lahl, direttrice
del Center for Bioethics and Culture americano. Diretta insieme a Justin Baird,
un regista di Los Angeles, l’inchiesta fa luce su un fenomeno che, con la scusa
di proteggere la privacy delle donatrici, di fatto getta un alone di silenzio
sulle storie di decine di donne che, attratte dalla possibilità di denaro
facile, hanno compromesso per sempre la propria salute e, in alcuni casi, hanno
perso la vita.
Alexandra trova l’annuncio
sul giornale dell’università di Stanford, dove fa la ricercatrice. Ha bisogno
di 3000 dollari e non le pare vedo di poterli guadagnare aiutando una donna che
non può avere figli: “La procedura è sicura”, legge nell’opuscolo. Mai avrebbe
pensato di diventare sterile e ammalarsi due volte di tumore al seno prima di
raggiungere i 35 anni. Una sorte simile a quella di Jessica, che però non ha la
fortuna di poter raccontare questa storia perché, dopo aver donato i propri
ovuli per ben tre volte, non è riuscita a sopravvivere al cancro che l’ha
uccisa a 34 anni; o a quella di Carla, che è finita sulla sedia a rotelle dopo
che si è lasciata ingolosire dal compenso per i suoi ovuli, circa 25mila
dollari.
Le agenzie “reclutano” le
donatrici facendo leva sul bisogno di soldi delle studentesse, ma anche
presentando questo gesto come estremamente altruista e generoso. “Non c’era
niente che dovessi temere, non c’erano rischi, continuavano a ripetermi. E io
ci ho creduto”, racconta oggi Jessica che non aveva idea dei trattamenti ai
quali sarebbe stata sottoposta. “Innanzitutto ci sono le conseguenze
dell’iperstimolazione ovarica, una procedura che aumenta il numero di ovuli
prodotti dalla donna sottoponendola a massicci bombardamenti chimici. Essa può
portare a perdita di coscienza, disfunzioni ormonali e danni anche permanenti
come tumori, o stati comatosi – racconta Suzanne Parisian, ex dirigente della
Food and Drug Administration, il corrispettivo della nostra Agenzia del farmaco
–. Ma non è tutto, anche l’operazione di estrazione degli ovuli comporta alti
rischi per la salute, emorragie, rischio di coma. A queste si aggiungono le
patologie conseguenziali alla donazione”.
Sono storie sconosciute, che
non trovano spazio sulle pagine dei giornali, in primo luogo perché in queste
cliniche non c’è traccia di queste donne. Non esistono registri, schedari,
archivi con le cartelle cliniche perché esse arrivano dall’anonimato e dopo il
trattamento ripiombano nell’oblio. Nessuno sa di loro, non hanno nome, non
hanno storia. Le cliniche si trincerano nel silenzio nascondendosi dietro al
“diritto alla privacy”, ma di fatto considerano le donne soltanto come ovaie
che camminano.
Quando le conseguenze
dell’ipertsimolazione ovarica, o della donazione degli ovuli si manifestano
attraverso coliche, nausee, fitte dolorosissime, le cliniche per la fertilità
rimandano le donne agli ospedali tradizionali, dove spesso esse mentono, non
raccontano cosa è successo loro per timore di essere giudicate, per vergogna.
«All’inizio ho fatto fatica
a trovare persone disposte a parlare – spiega Jennifer Lahl – perché le
cliniche della fertilità raccontano alle ragazze che la donazione degli ovuli
non ha nulla a che vedere con il loro stato di salute, che dipende dal loro
corpo. Ed esse si convincono e non parlano. Per fortuna oggi c’è internet, che
ci ha messo in contatto e le ha portate a fidarsi di me. Oggi grazie ad
Eggsploitation tantissime donne mi scrivono dall’Europa e dagli Stati Uniti
rompendo il muro dell’omertà».
Fra le protagoniste di
Eggsploitation, qualcuna ha rischiato di morire sola, sul pavimento di casa,
qualcun’altra è finita in coma perché si vergognava di chieder aiuto, qualcuna
lotta contro il cancro, la maggior parte di loro non potrà avere figli propri.
«Siamo di fronte ad una lobby che vuole a tutti i costi dare un figlio a chi
non ce l’ha, se può pagare – accusa Josephine Quintavalle, fondatrice del
Comment on Reproductuve Ethics, osservatorio britannico sulle pratiche
riproduttive da sempre affianto della Lahl nella battaglia per la tutela delle
donne–. Non possiamo chiedere alle giovani donne di rinunciare alla fertilità
per cercare di assecondare il nostro desiderio tardivo di maternità».
Desiderio che difficilmente
viene assecondato poiché, come testimonia il documentario, quasi il 70% delle
fecondazioni fallisce. Fallimento che si aggiunge alle gravi conseguenze sulla
vita delle donne e, qualche volta, anche del nascituro. Ma questi rischi ci
sono anche per la fecondazione omologa? «Sicuramente ci sono cautele maggiori –
precisa Jennifer Lahl – Anche se certamente ci muoviamo in un campo molto
rischioso, con conseguenze da non sottovalutare. Certamente un conto è
affrontare il bombardamento ormonale e le sue conseguenze per il disperato
desiderio di avere un figlio proprio, un altro è farlo con la leggerezza di chi
va a tagliarsi i capelli, perché è così che te la presentano se sei una
semplice e anonima donatrice di ovuli».
Come il documentario
testimonia, il rapporto è proprio così: cliente-fornitore. Le donne donatrici
vengono zittite con un assegno e abbandonate a loro stesse. Le cliniche nemmeno
appuntano il loro nome perché quel nome in nessun caso deve far riferimento ad
una fabbrica che per dare un figlio ad una donna ha tolto la possibilità di
generare a decine di altre.
Di Raffaella Frullone